Amazing Garda Lake: il Tortellino di Valeggio sul Mincio

Silvia e Malco sono i padrini romantici del tortellino di Valeggio sul Mincio.

Lui, capitano dell’esercito visconteo; lei, ninfa bellissima figlia del fiume. L’amore che sboccia ma che non può essere vissuto perché Silvia di notte deve far ritorno nelle acque, il fazzoletto annodato che suggella il loro legame, la gelosia di Isabella che li costringerà a esiliarsi dal mondo e vivere per sempre nel Mincio, lontano dalle angherie degli uomini.

La leggenda, ideata dal maestro orafo Alberto Zucchetta, nella sua poesia racchiude alcuni degli elementi chiave di Valeggio, come la presenza dei Visconti (il ponte fu costruito durante il dominio di Gian Galeazzo) e l’alea di amenità e bellezza che caratterizza tutto il paese, dal Castello a Borghetto.

Quel “Nodo d’amore” che lega Silvia e Malco, tuttavia, se da un lato ben si armonizza con il contesto suggestivo che indubbiamente Valeggio incorpora, dall’altro richiama una realtà produttiva e storica in cui la poesia va letta sotto altri punti di vista, molto spesso, per non dire esclusivamente, femminili.

Sono infatti le donne di Valeggio le vere artefici del successo del tortellino, perché da sempre sono loro le depositarie dell’incredibile manualità e dei tanti, piccoli segreti che accompagnano la realizzazione di questo gioiello di pasta fresca ripiena.

Partiamo dall’antefatto storico.

Parlare del tortellino di Valeggio significa richiamare una tradizione antica, nata nelle case, dove le donne, le famose “rezdore” (termine prettamente lombardo ma che aveva “sconfinato”), usavano uova e farina per creare l’impasto, che poi veniva tirato molto finemente e arricchito con un ripieno. 

E qui, poi, nasce un’altra biforcazione nella scuola di pensiero. Da una parte, infatti, c’è chi sostiene che il tortellino fosse soprattutto un piatto da ricchi, perché un tempo la carne era un lusso che solo le classi più abbienti potevano permettersi; dall’altra, invece, c’è di vede nel tortellino l’applicazione pratica delle casalinghe di una sorta di economia circolare domestica, perché la sfoglia doveva contenere gli avanzi di cibo, che non potevano assolutamente essere sprecati.

E’ probabile che la verità stia nel mezzo e che gli “agnolini” (definizione squisitamente veronese) venissero culinariamente declinati nell’uno o nell’altro modo a seconda della tavola su cui venivano serviti.

Ma se questo poteva essere stato l’antico retaggio storico di partenza, la storia del secondo Dopoguerra racconta invece di donne che, dismessi i panni di casalinghe, si ritrovarono a diventare fra le più importanti artefici della rinascita economica di Valeggio sul Mincio. Se per decenni (o per secoli) furono loro a reggere le sorti delle famiglie, a partire dagli anni ’50 si spinsero ben oltre le mura di casa e le loro dita iniziarono a confezionare milioni di tortellini per i viandanti (operati, commercianti, i primi turisti) che passavano per Valeggio. Piano piano le loro cucine di casa divennero laboratori, magari costruiti in qualche pertinenza o abbattendo qualche muro, dove si davano appuntamento per dar vita a una produzione sempre più importante, perché la nomea si espandeva e ogni anno di più l’esercito dei degustatori aumentava, fino a farlo diventare il prodotto tipico di Valeggio sul Mincio.

Ma che cos’è che lo rende speciale?

E’ sempre l’esperienza delle donne, perché soltanto loro sanno tirare la pasta fino a farla diventare sottilissima (requisito base del vero tortellino di Valeggio) e allo stesso tempo elastica. Se entrate in un laboratorio, rimarrete sbalorditi dalla straordinaria velocità delle dita di questa signore, le “rezdore”. Prima tirano la pasta, accompagnando i chilometri di sfoglia che escono dalla macchina con gesti precisi, dopo aver rispettato al secondo il tempo di riposo dell’impasto; poi stendono questi veli gialli sui tavoli e iniziano a tagliarli in lunghe strisce orizzontali, poi quadrettate con i tagli verticali. Arrivano le terrine con l’impasto già cotto e macinato. Vengono messe vicino alle “resdore” e loro iniziano a piluccarci dentro per prendere il bottino per farcire il tortellino. Una punta di ripieno, non di più, e guai a sbagliare misura.

Li chiudono uno a uno, riempiendo i telai disponendoli ordinatamente uno in fianco all’altro, come fossero soldatini da esibire in sfilata.

E ne fanno a milioni ogni giorno. 

E l’impasto? Eh già, perché non è solo la sfoglia il tratto distintivo del tortellino valeggiano. 

La base è la carne, in particolare di manzo e vitello, cucinate insieme a vari tipi di verdure e arricchite con aromi naturali. 

Non c’è una ricetta base. O meglio, esiste un orientamento diffuso che poggia su questi elementi, ma poi in ogni cucina  esistono piccoli segreti legati alle quantità e a microfilosofie gastronomiche: c’è chi mette la mortadella, chi mette il pollo, il Grana Padano o il Parmigiano, chi privilegia di più alcune spezie e così via.

Ma il bello, in fondo, è anche questo: assaggiare le interpretazioni di ogni cucina, cogliere le sfumature che le distinguono vedendole come un orgoglio radicato in quella preparazione ereditata dalle passate generazioni alla quale si vuole donare un tocco proprio.

E se passate da queste parti, magari grazie a quanto raccontatovi attraverso i canali di Amazing Garda Lake, il progetto di valorizzazione territoriale realizzato con il sostegno della Regione Veneto che si prefigge di illustrare il territorio mettendo in rialto le peculiarità del territorio gardesano, guardate il tavolino più appartato, quello che magari volge più degli altri al Mincio.

Magari vedrete Silvia e Malco che vi faranno compagnia…

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